La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 25287 del 24 agosto 2022, ha stabilito che il datore di lavoro si può rivolgere ad un’agenzia investigativa soltanto qualora siano stati perpetrati degli illeciti oppure si sospetti che alcuni illeciti siano in corso di esecuzione.
La vicenda in esame traeva origine dalla conferma, da parte dei giudici d’Appello, della decisione del giudice di prime cure, che aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento intimato dalla società Alfa a Tizio per motivi disciplinari.
Al ricorrente, la cui attività lavorativa era connotata da una certa flessibilità riguardo all'orario e alla sede di lavoro, era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro, in orario lavorativo, per compiti estranei al suo inquadramento professionale, essendo stati registrati, attraverso controlli effettuati da agenzia investigativa, incontri estranei alla sede di lavoro, non legati all'attività lavorativa, in luoghi distanti anche diversi chilometri dalla sede di lavoro.
Secondo i giudici di secondo grado, i controlli effettuati attraverso agenzia investigativa erano legittimi, sul presupposto che il rapporto di lavoro intercorrente tra le parti richiedeva un più rigoroso rispetto dell'obbligo di fedeltà e dei correlati canoni di diligenza e correttezza.
A questo punto, Tizio si rivolgeva alla Suprema Corte, che dava ragione al lavoratore.
In particolare, il Tribunale Supremo affermava che parte datoriale ha il diritto di “ricorrere alla collaborazione di soggetti esterni, (come, nella specie, un'agenzia investigativa), ancorché il controllo non possa riguardare, in nessun caso, né l'adempimento, né l'inadempimento dell'obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo l'inadempimento stesso riconducibile, come l'adempimento, all'attività lavorativa, che è sottratta a tale vigilanza”.
Gli Ermellini sottolineavano che il controllo esterno, deve limitarsi agli atti illeciti del dipendente non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione.
Per i giudici di legittimità, al fine di operare in maniera lecita, le agenzie investigative non devono sconfinare nella vigilanza dell'attività lavorativa vera e propria, riservata, dall'art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Quello del lavoro è un ambito molto complesso e fatto di precise regole che il dipendente è tenuto sempre a rispettare al fine di non incorrere in situazioni spiacevoli, le quali, il più delle volte, possono costargli la perdita del posto, mettendo in tal modo a repentaglio anche la sua carriera lavorativa.
Sicuramente al lavoratore spettano tanti diritti, quali retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale, attività sindacale, sciopero, ferie e aspettativa.
Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, va detto che il dipendente può, in specifici casi, chiedere un periodo di congedo o di aspettativa, e il datore è tenuto a concederglielo.
Tuttavia, sebbene il prestatore di lavoro goda del diritto di aspettativa, ciò non vuol dire che, durante il periodo di astensione dalla propria attività lavorativa, lo stesso sia tenuto a comportarsi come gli pare.
Ad esempio, durante il periodo di congedo o di aspettativa, il dipendente non può svolgere un altro lavoro, altrimenti il datore può licenziarlo.
Ciò è quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 19321 del 15 giugno 2022.
Nella vicenda posta al vaglio dei giudici di legittimità, nei giorni di aspettativa per gravi motivi familiari, un lavoratore, nel corso di indagini investigative, era stato sorpreso a svolgere attività riguardante i servizi di pulizia riconducibili all’impresa di cui la moglie era titolare.
La Suprema Corte, nel rigettare il ricorso del lavoratore, ha affermato che, qualora, nel periodo di aspettativa concessogli, il dipendente svolga un’attività lavorativa diversa e il contratto collettivo lo vieti espressamente, il suo superiore può intimargli il licenziamento.
Ciò in quanto, secondo la giurisprudenza di legittimità, la violazione di un espresso divieto, normativo o contrattuale che sia, rappresenta un inadempimento del lavoratore notevolmente grave.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Nella vicenda in esame, i giudici d’appello rigettavano il reclamo proposto nei confronti di Tizia dal Ministero dell’Interno avverso la sentenza del Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione ex lege 92/2012, aveva confermato l’ordinanza resa in sede cautelare dallo stesso Tribunale, che aveva accolto il ricorso di Tizia volto ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 29 maggio 2014 per superamento del periodo di comporto, e la condanna del Ministero sia alla reintegra del posto di lavoro, sia al risarcimento del danno quantificato nelle mensilità non corrisposte dal licenziamento fino alla data di effettiva reintegra.
I giudici di secondo grado constatavano che il Tribunale, contrariamente a quanto sostenuto dal Ministero, non aveva ritenuto quale requisito ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto l’indicazione specifica dei giorni conteggiati e sommati, bensì aveva affermato il principio secondo cui se il datore di lavoro nel provvedimento espulsivo provvede a specificare le giornate di assenza del lavoratore non può più modificarle o successivamente aggiungerne altre.
Inoltre, la Corte distrettuale rilevava che il Ministero aveva scelto di indicare i periodi di assenza per malattia da computare ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto. Così, il periodo indicato dal Ministero per assenza da malattia risultava di 472 giorni complessivi (per sommatoria), cioè inferiore al periodo di comporto limite previsto dalla contrattazione in 484 giorni.
Riguardo al periodo 15-26 luglio 2012 (periodo contestato ai fini del suddetto superamento), la Corte d’Appello constatava che nel decreto del Ministero del 31.03.2014, richiamato dal decreto espulsivo del 29 maggio 2014, era specificato che le assenze dal 15 al 26 luglio 2012 non rientravano nel computo ai fini del licenziamento per superamento del periodo di comporto, poiché dette assenze erano indicate come assenze “ingiustificate” e, dunque, non potevano essere conteggiate per tale superamento.
Infine, i giudici di merito ritenevano che non era rilevante l’eventuale successiva dimostrazione in giudizio che detto periodo di assenza era stato giustificato per malattia, in quanto ciò che rilevava era l’incontrovertibilità/immodificabilità dei periodi contestati nel provvedimento di espulsione, in base al principio della immodificabilità dei motivi di recesso.
Poiché la vicenda veniva posta al vaglio degli Ermellini, questi ultimi stabilivano che “In tema di licenziamento per superamento del comporto, il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato art. 2 della l. n. 604 del 1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l'onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tuttavia, ciò vale per il comporto cd. ‘secco’ (unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore; invece, nel comporto cd. per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorre una indicazione specifica delle assenze computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore”.
Dunque, il Tribunale Supremo rigettava il ricorso del Ministero e condannava quest’ultimo al pagamento delle spese processuali.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con l’ordinanza n. 1386 del 18 gennaio 2022, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che il datore di lavoro è tenuto a provare che, al momento del licenziamento del lavoratore, non vi fosse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti.
Tizia domandava di essere ammessa al passivo del fallimento della società Alfa per crediti derivanti dal proprio rapporto di lavoro subordinato con la predetta società: crediti ammontanti a complessivi euro 56.098,85 e riguardanti, oltre il TFR, le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla dichiarazione di fallimento, e ciò a titolo di risarcimento del danno ex art. 18, comma 3 legge n. 300/1970, nonché per quanto previsto, sempre a titolo risarcitorio, dallo stesso art. 18, comma 4.
Il giudice delegato ammetteva il solo credito relativo al trattamento di fine rapporto.
Il Tribunale di Roma respingeva con decreto l’opposizione allo stato passivo proposta da Tizia, rilevando che il licenziamento dell'istante, motivato dalla necessità di soppressione della mansione di arredatrice cui la stessa era stata adibita, fosse legittimo.
In ordine alla contestata sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento, il giudice dell'opposizione osservava che la società fallita si era determinata alla risoluzione del rapporto di lavoro per la circostanza, confermata testimonialmente, della soppressione del posto di visual; in ordine, invece, all'onere, gravante sulla datrice di lavoro, di provare di non aver potuto adibire la dipendente ad una diversa mansione, il giudice capitolino osservava che la fallita aveva rinnovato alla ricorrente la proposta, già formulata in sede conciliativa, di destinare la stessa all'incarico di addetta alla vendita, proposta che non aveva avuto seguito.
Tizia si rivolgeva alla Cassazione, che, nell’accogliere il ricorso, richiamava consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “spetta al datore di lavoro l'allegazione e la prova dell'impossibilità di repéchage del dipendente licenziato, in quanto requisito di legittimità del recesso datoriale”, e sottolineava “l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva, tenuto conto della organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento”.
Secondo gli Ermellini, il giustificato motivo oggettivo che rende legittimo il licenziamento intimato si configura proprio in assenza di collocazioni alternative del lavoratore all'epoca del licenziamento stesso; questo può ritenersi legittimo ove la determinazione del datore di lavoro di recedere dal rapporto sia motivata dall'impossibilità di destinare il prestatore di lavoro a mansioni diverse, situazione che, per condizionare il valido esercizio del diritto potestativo del datore, deve evidentemente sussistere nel momento in cui è espressa la volontà di recedere, e non in un momento successivo.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'
Con la sentenza n. 6500 del 9 marzo 2021, la Corte di Cassazione, pronunciandosi in materia giuslavoristica, ha stabilito che l’interesse all’esercizio dell’azione disciplinare da parte della P.A. permane anche nel caso di sopravvenuto collocamento in quiescenza del dipendente.
Secondo gli Ermellini, “l'interesse del datore di lavoro pubblico ad accertare, anche a rapporto cessato, la responsabilità del dipendente nei casi di gravi illeciti disciplinari, trascende quello meramente economico, poiché solo l'irrogazione della sanzione preclude raccoglimento della istanza di riammissione in servizio del dipendente dimissionario ed impedisce a quest'ultimo la partecipazione a pubblici concorsi, ai sensi dell'art. 2, comma 3, del d.p.r. 9 maggio 1994 n. 487”.
Il principio di buon andamento ed imparzialità della Pubblica Amministrazione giustifica l'intervento disciplinare "postumo" qualora il comportamento del dipendente infedele abbia leso l'immagine della Pubblica Amministrazione, la quale, dunque, deve intervenire a tutela di interessi collettivi di rilevanza costituzionale.
Con la c.d. riforma Madia, l’art. 55-bis, comma 9, d. Igs. 165/2001 è stato rielaborato ed ora dispone che “la cessazione del rapporto di lavoro estingue il procedimento disciplinare salvo che per l'infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio. In tal caso le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.
Anche se la prima versione dell'art. 55 bis, comma 9, d. lgs 165/2001 si riferiva alla cessazione del rapporto per dimissioni, è stato affermato che analoga regola valesse per la previa cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti massimi di età (Cass. 5 agosto 2019, n. 20914).
Sostanzialmente, nel suo complesso, la disciplina è stata considerata “espressione di un principio sottostante, di persistenza della possibilità per la P.A., nel ricorrere dei presupposti del licenziamento disciplinare, di irrogare la sanzione anche se il rapporto di lavoro sia precedentemente cessato per altre cause”.
Ciò in ragione dell'interesse pubblico a definire comunque il procedimento disciplinare per le ragioni di tutela dell'immagine della Pubblica Amministrazione, per gli effetti rispetto a future partecipazioni a concorsi o per l'ottenimento di incarichi, così come per una regolazione di rapporti economici concernenti risorse pubbliche, che tenga conto dei comportamenti tenuti dal lavoratore, qualora disciplinarmente illegittimi al punto da comportare la massima sanzione.
Dunque, l'irrogazione del licenziamento disciplinare a rapporto di lavoro cessato non costituisce in sé causa di inefficacia del susseguente recesso datoriale.
Il licenziamento disciplinare sopravvenuto è “destinato a manifestarsi come evento che, caducando ex nunc la causa dell'attribuzione, opera con effetto estintivo parziale sul diritto già maturato o, qualora l'erogazione vi sia già stata, la rende parzialmente indebita e ciò nella misura in cui tale indennità sia proiezione obbligatoria del diritto rispetto a mensilità per le quali, a causa del sopravvenire appunto del recesso per motivi disciplinari, non può ex post ammettersi la legittimità del riconoscimento”.
AVV. GIUSEPPINA MARIA ROSARIA SGRO'